GIULIA MARCHI
LA NATURA DELLO SPAZIO LOGICO
A CURA DI ANGELA MADESANI
24 OTTOBRE - 30 GENNAIO 2021
Come sempre di fronte ai lavori di Giulia Marchi lo spettatore non può limitarsi a uno sguardo frettoloso. I suoi sono dei veri e propri percorsi culturali, più che meramente artistici, in cui ogni passaggio trova degli appigli e apre altre vie. Mi trovo sempre in difficoltà e mi pare tutto considerato inutile, porre delle etichette classificatorie sugli artisti e sui loro lavori. Mi preme tuttavia sottolineare che le radici della sua ricerca si possono collocare in ambito concettuale.
Il titolo della mostra è il titolo di una serie di lavori proposti, che ci è parso, tuttavia, funzionare per l’intera rassegna che propone tre gruppi di opere. Il riferimento è al filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein, alla sua ricerca sullo spazio. Il filosofo è stato infatti anche architetto e ha dedicato all’architettura importanti passaggi della sua speculazione filosofica. Il suo edificio più significativo in tal senso è stato la Kundmanngasse, la casa progettata per la sorella Margaret a Vienna.
Nei suoi testi della metà degli anni Dieci emerge evidente tale serrato dialogo, al quale l’artista fa riferimento: «Luogo spaziale e luogo logico concordano nell’essere ambedue la possibilità di un’esistenza». Un’affermazione in cui è evidente l’interesse da parte del filosofo nei confronti dell’apparen-tamento tra spazio logico, mentale e spazio fisico, architettonico. Per Wittgenstein il lavoro filosofico, come spesso quello progettuale in senso architettonico, è un lavoro su se stessi, sul proprio entrare nelle cose, nei problemi, nei fenomeni ma anche sul proprio punto di vista. Un concetto che interessa profondamente Giulia Marchi e che, mutatis mutandis, trova un chiaro riferimento nei lavori che andiamo qui a presentare.
Quello di Marchi non è un lavoro di natura sociale, politica, come facilmente si potrebbe pensare: è questa una dimensione che sinora non è mai scaturita dalla sua opera.
È, piuttosto, una riflessione di matrice esistenziale sulla gestione di ognuno di noi all’interno di un luogo, una dimensione che non ci appartiene totalmente.
La natura dello spazio logico è costituito da sei lavori fotografici che indagano questo tema. La prima e la seconda fotografia sono dedicate alla prima volta in cui un uomo si misura con una dimensione non umana, così Ulisse e Polifemo, come raccontato nell’Odissea da Omero.
Nella prima immagine è un blocco di carta appallottolata che assume la forma ovoidale del cervello, posto su una lastra di marmo che rimanda ai supporti autoptici. Nella seconda la carta che prima era appallottolata è distesa, su di essa un puntatore. Il rimando è alla punta con cui Ulisse-Nessuno acceca il Ciclope, lo stesso Ulisse che in altro frangente si spinge oltre il limite dell’umana possibilità di conoscenza.
Nella terza e nella quarta fotografia l’allusione è a Dioniso e ai Titani. Dioniso, il cui nome è anche Lysios, colui che scioglie, è un umano nato dalla dea Semele, che non viene però accettato, secondo una delle tante versioni relative alla storie che lo riguardano. I Titani lo fanno a pezzi e lo dividono in sette parti corrispondenti ai continenti.
A Dioniso, uomo che supera la sua condizione naturale anche attraverso stati di natura psicotica, fa riferimento un altro filosofo sul quale Marchi ha lavorato, Friedrich Nietzsche.
Il filosofo tedesco, riprendendo dai classici, contrappone la dimensione dionisiaca a quella apollinea e a quest’ultimo fanno riferimento la quarta e la quinta foto del lavoro. Apollo ricompone con armonia le parti in forma circolare, così nella quinta e nella sesta fotografia.
Tutti i pezzi fotografati sono posti in orizzontale perché è la condizione in cui l’uomo crede di trovarsi. In orizzontale posati su una mensola, una sorta di altare. Come in una dimensione di matrice spirituale.
Distruzione e ricomposizione. Di nuovo Wittgenstein: «I problemi si risolvono non già producendo nuove esperienze, bensì assestando ciò che da tempo ci è noto».
È qui una simulazione dei puntatori, che costituiscono un altro momento della mostra.
Sono oggetti di pietra alti due metri distesi a terra, ancora un rimando all’orizzontalità e alla nostra modalità di visione, di osservazione.
In mostra sono, inoltre, quattro lastre di marmo sulle quali è inciso l’esametro virgiliano Ibant obscuri sola sub nocte per umbram. L’artista ha scelto di proporlo nell’errata versione di Jorge Luis Borges: Ibant obscuri sola sub nocte per umbras. È un errore voluto del poeta argentino che amava gli errori tanto da considerarli una prova di verità, sicuramente di umanità. L’errore è proprio della natura umana, anche quando tenta di avvicinarsi al divino. Una quinta lastra più grande reca la scritta Null, zero in tedesco, la lingua dei suoi filosofi. Come quando il gps va in una strada non censita. È lo spaesamento, è il non ritrovarsi.
Un altro momento della mostra, collegato a quanto appena scritto, è quello dedicato ai Labirinti. Anche qui il rimando è a Borges, al suo labirinto, creato sull’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia, su progetto dell’architetto inglese Randoll Coate, a venticinque anni dalla sua scomparsa. Il labirinto sull’isola ispirato al racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano è una struttura portante della poetica dell’intellettuale argentino. In esso è un’immagine incompleta ma non falsa dell’universo. Si ritorna così al concetto di errore.
Completa l’opera un dittico di matrici di Polaroid di grande formato con la geografia fisica dell’isola, elaborato dall’artista in camera oscura, come se si trattasse di un dipinto. Un procedimento questo fortemente legato all’esigenza della tattilità della conoscenza attraverso i materiali.
Altre immagini propongono le piante dello stesso in cui è possibile leggere il nome Borges oltre che rintracciare alcuni oggetti cari al poeta. Qui l’uscita coincide con l’ingresso. È un labirinto dove è impossibile perdersi, proprio come l’errore non porta alla menzogna, ma può essere foriero di verità.
Al leggendario labirinto di Cnosso, costruito secondo la leggenda dal re Minosse per rinchiudervi il Minotauro, nato dall’unione della moglie del re, Pasifae, con un toro è dedicato il secondo lavoro della serie; titolo è Lineare A, uno dei due sistemi di scrittura utilizzati nell'isola di Creta. Anche qui sono le piante del labirinto di Cnosso, le due vie d’uscita, un passo dell’Eutidemo un dialogo di Platone in cui viene messa in scena l’eristica, l’arte di scontrarsi attraverso la discussione, un metodo che, secondo il filosofo non porta alla verità. Le matrici di Polaroid mostrano la sagoma dell’Isola di Creta. Il terzo lavoro è dedicato al labirinto scozzese di Dunure, a ridosso del mare, che rimanda a quello di Cnosso.
Mi pare di potere rintracciare una sorta di “fil rouge” che lega i diversi lavori fra loro, una riflessione sul concetto di limite, attraverso l’errore, l’umana debolezza, lo spaesamento, il dubbio, l’incapacità di districarsi. Limite, errore, dubbio che forse sono proprio il senso più recondito, più temibile ma anche più affascinante dell’esistenza.
Angela Madesani
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